martedì 30 giugno 2009

Cervelli in Fuga - Leggo e Diffondo

Cervelli in fuga - Rita Clementi, 47 anni, 3 figli: sistema antimeritocratico

«Scappo. Qui la ricerca è malata»
Lettera della precaria che scoprì i geni del linfoma
Da mercoledì 1˚luglio lavorerà come ricercatrice in un importan­te centro medico di Boston.

Rita Clementi, 47 anni

Caro presidente Napolitano, chi le scrive è una non più giovane ricercatrice precaria che ha deciso di andarsene dal suo Paese portando con sé tre figli nella speranza che un’altra nazione possa garantire loro una vita migliore di quanto lo Stato italiano abbia garantito al­la loro madre. Vado via con rab­bia, con la sensazione che la mia abnegazione e la mia dedi­zione non siano servite a nulla. Vado via con l’intento di chie­dere la cittadinanza dello Stato che vorrà ospitarmi, rinuncian­do ad essere italiana.
Signor presidente, la ricerca in questo Paese è ammalata. La cronaca parla chiaro, ma oltre alla cronaca ci sono tantissime realtà che non vengono denun­ciate per paura di ritorsione perché, spesso, chi fa ricerca da precario, se denuncia è auto­maticamente espulso dal «siste­ma » indipendentemente dai ri­sultati ottenuti. Chi fa ricerca da precario non può «solo» contare sui risultati che ottie­ne, poiché in Italia la benevo­lenza dei propri referenti è una variabile indipendente dalla qualità del lavoro. Chi fa ricer­ca da precario deve fare i conti con il rinnovo della borsa o del contratto che gli consentirà di mantenersi senza pesare sulla propria famiglia. Non può per­mettersi ricorsi costosi e che molto spesso finiscono nel nul­la. E poi, perché dovrebbe adi­re le vie legali se docenti dichia­rati colpevoli sino all’ultimo grado di giudizio per aver con­dotto concorsi universitari vio­lando le norme non sono mai stati rimossi e hanno continua­to a essere eletti (dai loro colle­ghi!) commissari in nuovi con­corsi?
Io, laureata nel 1990 in Medi­cina e Chirurgia all’Università di Pavia, con due specialità, in Pediatria e in Genetica medica, conseguite nella medesima Uni­versità, nel 2004 ho avuto l’onore di pubblicare con pri­mo nome un articolo sul New England Journal of Medicine i risultati della mia scoperta e cioè che alcune forme di linfo­ma maligno possono avere un’origine genetica e che è dun­que possibile ereditare dai geni­tori la predisposizione a svilup­pare questa forma tumorale. Ta­le scoperta è stata fatta oggetto di brevetto poi lasciato decade­re non essendo stato ritenuto abbastanza interessante dalle istituzioni presso cui lavoravo. Di contro, illustri gruppi di ri­cerca stranieri hanno conferma­to la mia tesi che è diventata ora parte integrante dei loro progetti: ma, si sa, nemo profe­ta in Patria.
Ottenere questi risultati mi è costato impegno e sacrifici: mettevo i bambini a dormire e di notte tornavo in laboratorio, non c’erano sabati o domeni­che...
Lavoravo, come tutti i precari, senza versamenti pen­sionistici, ferie, malattia. Ho avuto contratti di tutti i tipi: borse di studio, co-co-co, con­tratti di consulenza... Come ul­timo un contratto a progetto presso l’Istituto di Genetica me­dica dell’Università di Pavia, fi­nanziato dal Policlinico San Matteo di Pavia.
Sia chiaro: nessuno mi impo­neva questi orari. Ero spinta dal mio senso del dovere e dal­la forte motivazione di aiutare chi era ammalato. Nel febbraio 2005 mi sono vista costretta a interrompere la ricerca: mi era stato detto che non avrei avuto un futuro. Ho interrotto una ri­cerca che molti hanno giudica­to promettente, e che avrebbe potuto aggiungere una tessera al puzzle che in tutto il mondo si sta cercando di completare e che potrebbe aiutarci a sconfig­gere il cancro.
Desidero evidenziare pro­prio questo: il sistema antimeri­tocratico danneggia non solo il singolo ricercatore precario, ma soprattutto le persone che vivono in questa Nazione. Una «buona ricerca» può solo aiuta­re a crescere; per questo moti­vo numerosi Stati europei ed extraeuropei, pur in periodo di profonda crisi economica, han­no ritenuto di aumentare i fi­nanziamenti per la ricerca.
È sufficiente, anche in Italia, incrementare gli stanziamenti? Purtroppo no. Se il malcostu­me non verrà interrotto, se chi è colpevole non sarà rimosso, se non si faranno emergere i migliori, gli onesti, dare più soldi avrebbe come unica con­seguenza quella di potenziare le lobby che usano le Universi­tà e gli enti di ricerca come feu­do privato e che così facendo distruggono la ricerca.
Con molta amarezza, signor presidente, la saluto.

Rita Clementi
29 giugno 2009

mercoledì 24 giugno 2009

Toni Da Re Sindaco a Vittorio Veneto, PDL e Sen. Castro

Dai tempi dell’università mi ero reso conto della crisi di un Sistema che per il Denaro ed il Sindacato aveva rinnegato i Valori Fondanti della Vita e costruiva a tavolino imbecilli per meglio governare. Nel ‘93 dopo un cancro avevo inteso dare il mio contributo ed entrai in A.N. Nonostante un ottimo risultato alle Regionali del 2000 ed una strada aperta, dopo aver sopportato “ominicchi” ed opportunisti, incapaci nel quotidiano ma bravi a costruirsi nicchie dorate nella politica, nel 2004 me ne andai dimettendomi da Presidente a Vittorio Veneto e membro del Direttivo Provinciale, per la colma della dichiarazione di Fini sulla Repubblica Sociale come “male assoluto”: mio padre fu volontario nella RSI nella Xà.
Ricordo Maurizio Castro dai tempi del Liceo come studente modello, buono, intelligente, preciso e di grande volontà, già allora impegnato in una destra ordinata e ligia, diversa dalla mia visione indisciplinata e sociale. Quando mi volle incontrare a Pieve di Soligo prima della sua elezione a Senatore, pur distante da AN da 4 anni accettai. Quando, dopo una carriera dirigenziale ormai di primo piano, divenne Senatore tutti erano contenti che un nostro così famoso concittadino assumesse una così importante carica dello Stato, contando che esperienza politica e dirigenziale marciassero unite.
Alla sua prima uscita locale il centrodestra cittadino forse ben poco comprese della Sua dialettica di alto livello, fuorché il concetto di ridare un Destino a questa Città, nostalgica dei fasti passati ma in parte poco incline ai cambiamenti, anche se il “come” restava da svelare.
Poi i tempi troppo brevi di questa dimessa campagna elettorale, che , come quella contro Berlusconi, si è caratterizzata non per le idee (sentire certi candidati Sindaci è stata una pena..) ma per i toni alti ed i colpi bassi con l’unica motivazione di tutti i Partiti di mandare a casa la Lega.
Quindi il tiro alla fune tra Lega e PDL, con un PDL inesistente e da anni endemicamente diviso tra Gaviani e Sernagiottani; e pensare che avevo pensato di propormi per riorganizzarlo.
Nonostante una sua fazione si fosse schierata con la Lega con cui al Governo Nazionale e Regionale marcia Unito, fino all’ultimo, in un “torneo” che ha visto Vittorio Veneto incolpevole campo di battaglia di uno scontro tra correnti del PDL e Lega che parte da molto più lontano per il controllo del Veneto, il PDL sacconiano ha giocato sul posto con M. Castro il suo gioco ed ha perso, ritrovandosi con il cerino acceso in mano: l’elettorato ha fatto vincere la Lega da sola contro la Sinistra, PDL fuori gioco.
Chi lavora ogni giorno per un risultato concreto, Chi fa politica sa che i numeri contano, e che si può tirare la corda fino ad un certo limite.
Si può anche tentare la carta finale, ma poi devono subentrare il senso della realtà, il dovere di squadra, l’etica, anche contro gli ordini di partito; non si possono lasciare gli elettori liberi di votare facendo intendere che è meglio che votino a sinistra, il PD, piuttosto che far vincere la Lega, partito con cui è difficile trovare accordi, totalizzante ed irregimentato; la Gente ha gli occhi per vedere, ha vissuto cosa ha fatto la sinistra dagli anni 70 in poi nel Paese ed a Vittorio Veneto e cosa ha invece fatto la Lega in questi 10 anni. Quindi era difficile e fuori della realtà credere che, a parte una minoranza di partito, quanti votano PDL perchè non condividono le politiche di sinistra potessero obbedire a direttive “contro natura”. E così è stato
Ma il massimo del risultato per il PDL sacconiano è la “navigata” dichiarazione odierna di Costa del PD, che ha ringraziato l’ex ”avversario” PDL per i pochi voti che gli ha dato: con queste semplici parole Costa ha astutamente conseguito il doppio risultato di “condannare ” alla gogna i “collaborazionisti” dell’Altra Parte e contemporaneamente di togliere loro credibilità e velleità.
La Sinistra vittoriese, presentatasi divisa al primo turno solo per contarsi e dividersi gli scanni in caso di vittoria, poi prevedibilmente come sempre si è coerentemente schierata con il suo Candidato Sindaco Costa ed ora sarà all’Opposizione; il più bello, però, ha ancora da venire con De Bastiani, e De Nardi del PDL sacconiano sui banchi dell’Opposizione schierati con la sinistra (se non riterranno più opportuno trovare accordi di convivenza con la Lega); con M. Campodall’Orto - che merita di essere il capogruppo del PDL - non distante dalla Lega all’opposizione, e con Forza Vittorio, fazione del PDL già in Consiglio con la Lega, riconfermata in Maggioranza.
In tale scenario si è perpetrata questa catastrofe ampiamente prevedibile della politica e del buon gusto; se la Politica praticasse la meritocrazia ed il rinnovamento morale di cui tanto oggi si vanta, certo a più d’uno specie tra quanti in alto non si sono esposti dovrebbe chieder conto.

Leggo e Diffondo: A. Mezzano - Sul Risarcimento alla Libia di Gheddafi

E’ LA SOLITA POLITICA DEI VERMETTI-FURBETTI

A proposito della visita di Gheddafi

di Filippo Giannini

“Vermetti-furbetti: sono così chiamati dei piccoli animali invertebrati che hanno corpo molle. Il loro luogo naturale, dove prolificano, è in quella fascia di terra bagnata dal mare caldo”.
Sì, i vermetti-furbetti hanno lasciato credere che le atrocità (reali o presunte, come vedremo) commesse dagli italiani in Libia, furono opera del male assoluto. La Verità vera è completamente diversa, o almeno fortemente ridimensionata.
L’invasione della Libia fu preparata dall’Italia fin dal 1887 (Mussolini, il male assoluto, aveva quattro anni). Forti pressioni per questa impresa vennero principalmente dalle banche alla testa delle quali era il Banco di Roma che aveva investito notevoli capitali proprio in Libia, contando sulla sua trasformazione in colonia. Ma a favore della spedizione troviamo anche i socialisti, i sindacalisti rivoluzionari, nonché i cattolici. La decisione della guerra contro la Turchia, che allora dominava la Libia fu presa dal Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, nel novembre 1911 ed il 25 di quel mese il dado fu tratto, e fu guerra. Violente dimostrazioni contro quell’impresa si svolsero principalmente in Romagna, guidate, indovinate da chi? Dall’allora non ancora male assoluto. Però, evviva la democrazia, la dichiarazione di guerra, come consentiva l’art. 5 dello Statuto, fu inviata senza l’approvazione del Parlamento (cose fasciste, vero? Anzi fascistissime), il quale, in vacanza dal luglio, riaprirà solo il 22 febbraio 1912.
Il contingente italiano, dopo aspri combattimenti, occupa i principali centri costieri della Tripolitania e della Cirenaica; ma non va oltre. L’interno libico rimarrà, per almeno due decenni, in mano di bande locali, spesso in lotta fra loro.
Ma, c’è sempre un ma, anche se non ancora in Camicia nera: un attacco turco a Sciara Sciat provoca quasi 400 morti fra i bersaglieri italiani. Seguirà da parte italiana una feroce rappresaglia (fascista? Ma che pensate! Mancano ancora una dozzina di anni prima che il male assoluto prenda il potere) che colpirà anche la popolazione civile dell’oasi. Il comportamento italiano susciterà indignazione nella stampa internazionale e provocherà un’intensificazione della guerriglia araba di resistenza. E’ OVVIO che i vermetti-furbetti, giocando sul monopolio dell’informazione e sull’ignoranza del popolo, HANNO FATTO CREDERE CHE QUELLA RAPPRESAGLIA FOSSE DI CHIARA MARCA FASCISTA. E non è da dimenticare che dopo la Prima Guerra Mondiale la riappropriazione della Libia fu avviata con mano di ferro da un Ministro liberale che si chiamava Giovanni Amendola.

La visita del dittatorello libico, colonnello Gheddafi che ci ha onorato in questi giorni di giugno 2009, nel corso della quale ha preteso, e ottenuto le scuse da parte delle autorità italiane per le atrocità commesse dall’Italia fascista (il fascismo, come abbiamo visto, nel caso di Sciara Sciat, era ancora solo nella mente di Allah), ed i vermetti-furbetti si sono genuflessi anche dinanzi al sanguinario beduino.
Chi scrive queste note non è un fanatico, quindi riconosce che nel caso specifico le scuse erano giustificate, ma (ecco un altro ma) quali scuse ha portato Gheddafi per le atrocità commesse da parte dei suoi concittadini a danno degli italiani? Circa le atrocità di cui furono vittime i soldati italiani caduti nelle mani dei turchi-libici durante la conquista di Tripoli, sono così riportate dal Journal: E il giornalista del Matin: . E chi porge le scuse per queste atrocità? I vermetti-furbetti non dispongono degli attributi necessari per un giusto atto d’orgoglio.
Il mai sufficientemente rimpianto Franz Maria D’Azaro, già il 10 novembre 1987 scriveva: . Quello che una volta erano ridicole pretese, oggi, 2009, il col. Gheddafi torna a casa con un assegno che gli italiani dovranno onorare. Questa è la politica dell’italietta nata dalla Resistenza, priva di un anche minimo motivo di orgoglio.

E veniamo alle imprese di Omar al Muktar. Il film che esaltava le imprese del ribelle libico, Il Leone del deserto, costato circa cinquanta miliardi di lire nel 1980, ebbi occasione di vederlo nei primi anni del ’90 in Australia, per quanto ricordo, non fu particolarmente acido nei confronti degli italiani. Il film non è stato mai proiettato in Italia.
Omar el Muktar era al servizio del monarca senussita, Re Idriss, detronizzato proprio da Gheddafi nel 1969.
Ora è necessario ricordare, checché ne possano dire i vermetti-furbetti, la pacificazione della Libia era una delle tante eredità negative lasciate al fascismo dai governi precedenti. Come ricorda Franz Maria D’Azaro, quando Rodolfo Graziani, inviato in Libia dal Governo per tentare la pacificazione, trovandosi di fronte a Muktar, questi chiese al futuro Maresciallo d’Italia: questi rispose: accompagnando la risposta mostrando una moneta romana di Leptis Magna, così denominata la Roma d’Africa da Diocleziano. Interessante è anche quanto ricordato, sempre da Franza Maria D’Azaro, riportando un giudizio di Oliver Reed che interpretava nel film la parte di Graziani, il quale nutriva una profonda stima verso il ribelle libico, ricorda Reed . In altra occasione Graziani disse a Muktar: . In merito a ciò, commenta Reed: .
Omar el Muktar nasce in un villaggio della Marmarica orientale intorno al 1862, in un ambiente fortemente influenzato dalle regole del Corano. Omar el Muktar si fa notare sia per la sua attitudine negli studi coranici, sia per il suo temperamento volitivo, ma anche per la sua volontà nel combattere prima i turchi, poi gli invasori italiani. A 40 anni è nominato capo della Zawia (convento e centro d’azione) e tornato nella natia Marmarica ha la spiacevole sorpresa di vedere le tribù sottomesse al governo italiano. Da allora in poi, sempre nel nome di Dio Altissimo e Misecordioso, punisce con spietata durezza chiunque accetti di collaborare con le autorità italiane.
A causa della guerra 1915-1918 il territorio, specialmente quello interno, vide le truppe italiane ridursi notevolmente per essere trasferite in altri fronti, così che bande sempre più numerose poterono spadroneggiare nel territorio imponendo decime alle popolazioni, accanendosi, in particolare contro coloro che mostrano una qualsiasi simpatia verso l’Italia. Omar el Muktar ha una parte preminente in queste azioni intimidatrici e punitive, precedute e seguite sempre da atti di inaudita ferocia. Fare un elenco del terrore seminato dal Leone del deserto e da altre bande simili è semplicemente impossibile (1). L’attività di Omar el Muktar assume connotati di assoluta preminenza nel biennio 1929-1931, di conseguenza il Governo italiano ritenne indispensabile pacificare tutta la Libia. Badoglio e Graziani, incaricati allo scopo, reputarono necessario sottrarre il territorio all’influenza dei capi locali. Graziani, sempre affascinato dal modello della romanità, si richiamò alla legge “parcere subiectis et debellare superbos” e la applicò sforzandosi a persuadere i nativi che se protetti dal tricolore italiano avrebbero ottenuto un avvenire tranquillo e di prosperità. Quindi giustizia e perdono per i sottomessi, severità implacabile per i ribelli.
Mohamed el Mohesci, giornalista filo-italiano, sostenne che la tensione alimentata da Omar el Muktar stava frenando il decollo economico e sociale della Cirenaica, nonostante .
Negli anni ’29, a seguito di una serie di contatti con alti ufficiali italiani, sembrava che un accordo sulla pacificazione fosse a portata di mano, ma a ottobre di quell’anno el Muktar ordinò l’attacco ad una pattuglia di zapié (carabinieri indigeni) comandati dal brigadiere Stefano Ramorino, accorsa per riparare la linea telefonica, appositamente sabotata in località Gars Benigden proprio per realizzare l’agguato. L’eccidio compromise qualsiasi ulteriore tentativo di accordi e ravvivò la guerriglia e la contro-guerriglia. Nei primi quattro mesi del 1931 il ritmo delle razzie e degli agguati assunsero proporzioni non più tollerabili. Fu in questo contesto che Graziani concepì e diresse la più grande e complessa operazione sahariana mai prima compiuta. Obiettivo finale della manovra: l’oasi di Kufra, nel più profondo sud desertico, conquistata, dai reparti cammellati, dopo una massacrante marcia nel deserto.
Contrariamente a quanto prevede il codice d’onore occidentale, un capo arabo ha il dovere di sottrarsi alla morte e alla cattura. Omar el Muktar, approfittando di questo diritto, non accettò la battaglia, ma ormai stanco, sfiduciato, vecchio e abbandonato dai suoi fidi, venne catturato, ai primi di settembre del 1931 nella zona di Uadi el Kuf, da una pattuglia di Sawari. Dopo la cattura, accusando di essere stato abbandonato al suo destino, stoicamente aggiunse: .
Graziani, d’accordo con Badoglio e con il Ministro delle Colonie De Bono, convocò il Tribunale militare speciale.
Trascriviamo le parti essenziali del dibattimento: “L’anno millenovecentotrentuno, il giorno quindici del mese di settembre, in Bengasi nell’ufficio d’Istruzione delle Carceri Regionali (…). Si entra nel vivo della causa. Il Presidente chiede: . Omar: (…). Pres. : . Omar: . Pres.: . Omar: (…). Pres. : . Omar: . Pres.: . Omar: (…). Dall’arringa del Pubblico Ministero proponiamo solo le parti più determinanti. Il P.M. rivolgendosi all’imputato lo accusa: .
Al termine dell’udienza il Presidente chiese al giudicabile se ha altro da dire a sua discolpa, ed ottenuta risposta negativa, il Tribunale si ritirò in Camera di Consiglio. - Dopo mezz’ora rientra nell’aula ove tra un religioso silenzio il Presidente legge la sentenza con la quale, ritenuto Omar el Muktar responsabile dei reati ascritti, lo condanna alla pena di morte. Avendo l’interprete tradotta la sentenza al giudicabile, questi dice: -Da Dio siamo venuti, a Dio dobbiamo tornare-.
Il giorno dopo, alle 9 nell’assolata piana di Soluk, l’esecuzione venne consumata in un cupo silenzio. - L’evento è triste - ha scritto Franz Maria D’Azaro - ma chi ha giudicato Omar el Muktar ha la certezza di averlo condannato non per aver animato la ribellione, ma per aver ordinato, incoraggiato e lasciato compiere atrocità contro gli italiani e contro le stesse popolazioni indigene (…). Un fatto è certo, scomparso Muktar – cui fece seguito la coraggiosa liberazione in massa degli ex ribelli – non un solo colpo di fucile è stato più esploso contro gli italiani, razzie e saccheggi finirono d’incanto e i remoti territori del deserto tornarono alla serenità -.

Ed ora facciamo qualche dispettuccio ai vermetti-furbetti, ricordando qualche esempio di quanta cattiveria fu animata la colonizzazione Littoria.
Il Duce si recò in Libia dal 12 al 21 marzo 1937, per inaugurare ospedali, strade, edifici pubblici, fattorie. Anziché essere preso a fucilate fu accolto dai nativi con un entusiasmo incontenibile, tanto che gli fu donata la Spada dell’Islam, intarsiata in oro massiccio e pietre preziose, alto simbolo di riconoscenza. Nel corso delle sua visita nelle varie località libiche l’entusiasmo dei coloni italiani e della popolazione locale era veramente esaltante. Descrivere in queste poche pagine le opere compiute dal lavoro fascista, a dispetto del dittatorello libico, risulta impossibile, ma solo per motivi di spazio.
Un’altra iniziativa del male assoluto, accuratamente taciuta dai vermetti-furbetti, iniziativa unica del genere per i Paesi colonizzatori, fu il provvedimento con il quale grazie al R.D. Legge 3 dicembre 1934 XIII, N° 2012 e del R.D. 8 aprile 1937 XV N° 431, dove nell’articolo 4 è riconosciuta . Per essere più chiari, l’infame Regime riconosceva i cittadini libici come cittadini italiani; chiamati, allora, italiani della quarta sponda.
Spaziando ancora con qualche esempio, possiamo ricordare quanto scrisse il capo senussita Mohammed Redà: .
E ancora. Un autorevole insegnante libico, il prof. Mohammed ben Messuad Fusceka, in un suo libro, con il titolo La storia della Libia, edito nel 1956, fra l’altro ha scritto: .

E oggi (ma quanta tristezza), cosa possono snudare e alzare verso il cielo i vari vermetti-furbetti, i vari arlecchini e pulcinella, i quali non hanno niente di meglio che indagare quanti rapporti sessuali ha uno rispetto all’altro? Li vediamo genuflessi di fronte ad un Gheddafi autore di una delle più vergognose rapine che la storia ricordi, durante le quali parlò di cancro italiano. Quando cacciò, negli anni ’70 gli italiani dalla Libia, appropriandosi da perfetto razziatore di quattromila ettari di terreni, di 714 mila olivi, 245 mila piante di agrumi, 184 mila piante di mandorlo, un milione di tralci di uva, 4 mila ville, 765 appartamenti, 468 edifici, 727 tra veicoli industriali e trattori agricoli, 265 officine, 50 industrie, nazionalizzate le banche (un affare da quattordici miliardi in un colpo solo), un numero imprecisato di oggetti di valore confiscati nelle case degli italiani. Una sola soddisfazione, se questa fosse sufficiente: (Franz Maria D’Azaro). Ed i vari Arlecchino e Pulcinella per ricambiare e riparare la rapina da noi subita, hanno regalato al rapinatore un risarcimento (lo vogliamo chiamare così?).

Ed io non dovrei essere un nostalgico?

1) Per coloro che volessero approfondire l’argomento, si consiglia la lettura di un articolo a firma di Franz Maria D’Azaro, contenuto ne Il Secolo d’Italia del 10 e 13 novembre 1987.

Leggo e diffondo: Da Il GIORNALE

Caro direttore,
ho 86 anni e mi scusi se sono costretto a scriverle a mano: non riesco più a usare la macchina per scrivere. Sono stato partigiano. Avevo 22 anni. Mi trovai in difficoltà con gli altri partigiani, quasi tutti reduci di guerra. Io ero il più giovane. Gli altri erano tutti sui trent’anni e anche più. Quasi tutti erano stati soldati nei vari fronti della spaventosa Seconda guerra mondiale. Io avevo ottenuto l’esonero dal servizio militare perché dovevo lavorare per alimentare i miei sette fratelli. Mio padre era morto d’infarto. Finita la guerra ci fu un’orgia tremenda con la caccia al fascista. Non soltanto venivano maltrattati quelli che avevano aderito al fascismo, ma tanti altri, che con il fascismo non avevano mai avuto nulla a che fare. Fu un’orgia tremenda, ripeto. Ricordo alcuni fatti. Un partigiano (però in quel momento si facevano chiamare partigiani anche molte persone malfamate: ladri, provocatori, gente che viveva di espedienti, furto soprattutto) andò nella casa di un impiegato comunale e volle che quella casa diventasse sua. Costrinse il malcapitato a firmare un foglio nel quale era detto che quella casa la cedeva al partigiano e pretese che la famiglia dell’impiegato uscisse di casa, perché quella casa era sua. Questo è uno dei tanti casi di quei giorni maledetti. Ho visto un carcere strapieno di gente (uomini, donne e bambini) arrestata dai partigiani perché fascista. Ricordo una donna che piangendo mi disse che lei non si era mai occupata di politica. L’avevano arrestata perché non voleva cedere la sua casa ad un partigiano. E poi altri fatti dolorosi, che mi costrinsero a ritirarmi. In quelle settimane in cui ero stato partigiano non ho visto altro che violenze tremende, appropriazioni indebite, furti, ricatti. Gli unici a comportarsi bene erano i reduci di guerra trasformatisi in partigiani. Gli altri erano soltanto ladri. Ora mi domando: io non sono in grado di fare lunghi tragitti, cammino con il bastone. E nel 1945 avevo 22 anni. Come mai esistono oggi baldanzosi partigiani che sfilano baldanzosi? Hanno la mia età? E com’è possibile che l’associazione partigiana abbia sempre nuovi iscritti? E la Quinta armata inglese e l’Ottava armata americana, che dalla Sicilia al Brennero, hanno invaso l’Italia liberandola da un regime ormai finito, non sono esistite? Solo le bande di partigiani hanno liberato l’Italia?
- Milano

Che le devo dire, caro Bonzio? Da quando leggo i libri di Giampaolo Pansa (non perdetevi l’ultimo: «Il revisionista»), mi sento un po’ meglio. Ma resta il fatto che tutta la storiografia ufficiale tende a descrivere la fine della guerra come una vittoria dei partigiani (sostanzialmente solo partigiani comunisti) contro i nazi-fascisti. Stop. E lo sa perché? Perché nel dopoguerra la storiografia ufficiale è stata affidata all’Insmli, l’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, creato nel 1949 per iniziativa del Pci e dell’Anpi, e che ancora oggi pontifica (a spese nostre) sotto la presidenza di Oscar Luigi Scalfaro. Risultato? Non solo nella memoria del Paese sono stati cancellati i soldati americani e inglesi, sepolti nei silenzi dei cimiteri di guerra, ma si dimenticano anche i soldati italiani che hanno combattuto al loro fianco. Provi a chiedere a uno studente che esce dal liceo se ne ha mai sentito parlare. E provi a chiedere anche se ha mai sentito parlare di Cefalonia. Vedrà. I nostri ragazzi escono dalla scuola convinti che i militari italiani siano quelli del film di Alberto Sordi, «Tutti a casa». E se parli loro di Triangolo Rosso, al massimo pensano all’ultimo perizoma esibito da Madonna in concerto...
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da IlGiornale.

Leggo e diffondo

LA GUERRA CIVILE IN ITALIA

A questo proposito vogliamo riportare un brano del libro di Rutilio Sermonti “ Omaggio alla R.S.I.” che riteniamo illuminante ed esaustivo sull’argomento:

“..Sul suolo d’Italia, la guerra civile, come modalità e mentalità, fu da una sola parte, con fini di parte.
Noi della R.S.I. anche se fummo costretti a difenderci da chi ci attaccava alle spalle, altro fine non ci ponemmo mai che gli interessi morali e materiali della Nazione tutta. E questo non fu un caso in quanto era la conseguenza della nostra diversa natura spirituale, rispetto a quella dei nostri avversari di sempre.

Vane affermazioni apologetiche?

Vediamo un po’.

Due volte nel secolo XX°, Fascisti ed antifascisti associati si trovarono di fronte a mano armata, se non erro.
La prima nel 1920 – 1922 vinsero i Fascisti ( pur avendo avuto molte più perdite degli avversari) e loro fu tutto il potere.
Ebbene, non un solo italiano fu perseguitato o danneggiato per avere militato dalla parte opposta!
A tutti, nessuno escluso, fu offerta la possibilità di collaborare al progresso della Nazione.
Ex avversari di valore, senza alcuna richiesta di abiura, continuarono ad occupare prestigiose cattedre universitarie o importanti funzioni nello Stato ( basti pensare a Orlando a Calamandrei, a Caronia, a Croce, a Benduce, a Cesare Mori ).
Il tanto vituperato Tribunale speciale non emise condanne che per fatti successivi all’avvento del Fascismo e l’unica pena di morte fu erogata a Schirru che aveva sparato al capo del governo in carica.
L’opposizione antifascista continuò indisturbata a sedere in Parlamento e la stampa antifascista a pubblicare.
Quando la sciagurata iniziativa di alcuni fascisti provocò la morte, certo non voluta, del deputato Matteotti, essi furono individuati, processati e condannati ed i figli della vittima furono fatti studiare a spese dello Stato.

Anche i provvedimenti autoritari ( sempre del tutto incruenti ) del Gennaio 1925, furono emanati soltanto quando la sconcia guerra aventinista e gli incitamenti all’odio, che provocarono l’assassinio, due anni dopo la marcia su Roma , di oltre quaranta Fascisti, convinsero Mussolini che l’ostilità dichiarata rendva la collaborazione con la vecchia classe dirigente “democratica” , in nome delle Nazione, da lui auspicata, del tutto impossibile.
Comunque è certo che se violenza Fascista ci fu, per la conquista del potere ( ed in misura molto minore e cruenta di quella opposta ) essa cessò del tutto a risultato raggiunto.

La seconda volta, nel 1945, vinsero gli antifascisti, o meglio approfittarono della vittoria dei nemici stranieri.
Come si comportò la fazione che aveva preso il potere verso i connazionali ormai debellati ed inermi, è una indelebile macchia di vergogna che soltanto i secoli potranno cancellare!
La marmaglia berciante e tripudiante dei “ partigiani dell’ultima ora” si dedicò al vile e feroce massacro non solo dei combattenti superstiti caduti nelle loro mani, ma addirittura dei loro simpatizzanti veri o presunti.
La sola accusa di essere stati “Fascisti” era sufficiente per subire il supplizio e tale fu il destino di più di centomila uomini e donne del tutto inermi.
Tutta la classe dirigente della Repubblica Sociale fu sistematicamente assassinata e la sorte subita dal suo Capo ed il vilipendio della sua salma provocarono l’orrore persino dei nemici che egli aveva sino all’ultimo combattuto.
Reparti arresisi con patto di salvaguardia furono, non appena disarmati, massacrati fino all’ultimo uomo.
Non solo il, Massacro si protrasse impunemente per mesi dopo la “liberazione” per segreto ordine di quello che fu il titolare del ministero della giustizia democratica, ma la giustizia ufficiale stessa continuò per anni ad erogare condanne a morte in danno di persone che altra colpa non avevano che di avere servito la Patria nel modo che essi ritenevano doveroso.
Fortunati tra i vinti furono coloro che, grazie alla famosa epurazione, furono soltanto lasciati senza lavoro.
E’ vero tutto questo o me lo sono inventato io..?”

Quelli che Rutilio Sermonti ha riportato sono Fatti accaduti e non ipotesi e di fronte a questi fatti si può trarre una sola conclusione e cioè che la cosiddetta Guerra civile fu voluta ed attuata in modo preponderante da una sola parte: da quella antifascista con l’egemonia del partito comunista il quale, sino al trattato di Yalta del Febbraio 1945, che assegnava l’Italia all’influenza Americana, sperava di sostituire la dittatura fascista con quella Comunista Bolscevica mondialista che faceva capo a Giuseppe Stalin.

D’altronde basta leggere Lenin e poi Giorgio Bocca per avere chiaro il quadro di cosa volesse provocare la guerriglia e cioè la creazione di un fossato di odio tra due fronti che prima non c’erano, ma che era necessario creare per fare la rivoluzione.

Alessandro Mezzano


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